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Riabilitazione su base comunitaria: Diritto di cittadinanza

di Luisa Mango

La pubblicazione da parte dell’OMS, nel 2011, del documento denominato ICF ha affermato un nuovo concetto di stato di salute come costrutto multilivello su cui incidono una serie di fattori intrinseci alla singola persona ed estrinseci alla stessa e derivanti questi ultimi da situazioni contestuali.
Per lo stato di benessere della persona diventa fondamentale il concetto di partecipazione.
Per uscire dalla fumosità di concetti astratti, l’ICF declina i domini di partecipazione stabilendo nove domini di partecipazione distinti in capacità e performance e in cui lo scarto tra tali valori rappresenta il potenziale di sviluppo del singolo individuo, in cui diventa fondamentale, non solo l’abilitazione di strutture e funzioni, ma l’adattamento dell’ambiente circostante. Dal gioco equilibrato tra abilitatori intrinseci (intervento su strutture e funzioni) ed estrinseci (fattori ambientali) si delinea la possibilità per la persone di perseguire la massima autonomia possibile per una vita partecipata e non marginalizzata.
Un ulteriore passo in avanti in questa direzione è stata la ratifica da parte delle Nazioni Unite (ONU) dei diritti delle persone con disabilità alla partecipazione e non discriminazione. Come hanno ben specificato Amartya Sen e Marta Nussbaun, il concetto fondamentale che ispira la carta dei diritti è “uguaglianza nella diversità”. Si capisce, pertanto, come la ratifica di un tale documento, rappresenti la possibilità per il singolo cittadino di esigere, per vie legali, un trattamento che lo includa all’interno del contesto di appartenenza e/o di qualsiasi altro contesto egli stesso desideri.
Il concetto di inclusione inoltre è ben più ampio del concetto di integrazione. Mentre quest’ultimo si propone di rendere il più possibile uguali le persone al resto delle altre di una comunità, il concetto di inclusione è di più ampio respiro e deve fare i conti con un altro concetto che è quello della marginalità.
Come ben afferma Maura Striano dell’Università degli Studi di Napoli Federico II: “La marginalità si colloca all’interno di un continuum situato sotto e sopra la linea dell’orizzonte sociale che ha come poli l’inclusione e l’esclusione sociale. Gli elementi significativi per un impatto sui processi di inclusione/esclusione sono: la razza, la collocazione geografica, la struttura delle classi sociali, la globalizzazione, le questioni sociali; gli aspetti personali; l’educazione; la religione; i fattori economici; i fattori politici”.
Come si può dedurre da questa premessa, ci troviamo di fronte ad una vera rivoluzione di paradigma che ha implicazioni e ricadute sulla vita delle persone che, a qualsiasi titolo, si possono trovare in situazione di marginalità e quindi essere costrette a far valere un diritto statuito.
Nella nostra trattazione ci soffermeremo sull’impatto che tali paradigmi esercitano, o dovrebbero esercitare, sui modelli di abilitazione/riabilitazione delle persone con disabilità.
“A che punto siamo dal 2011 ad oggi?” Questo domanda l’International Choach Federation.
Un lavoro serio è stato fatto sul fronte della ricerca clinica e statistica. In particolare indagini statistiche sulla salute, qualche tentativo di fare dell’ICF il fondamento della progettazione personalizzata per l’avviamento al lavoro, qualche provvedimento regionale di regioni virtuose quali Umbria, Emilia Romagna, Piemonte, ma nessuna traccia nelle norme nazionali dove coesistono elementi tra i più disparati tra loro, nonostante il governo Italiano abbia ratificato sia ICF che Convenzione ONU, nonostante il MIUR abbia adottato per l’ingresso a scuola delle persone con disabilità la diagnosi funzionale secondo ICF, e che le linee guida sulla riabilitazione, genericamente, si richiamino alla Convenzione ONU e all’ICF, enfatizzando il concetto di partecipazione, ma non sostanziandolo di strumenti precisi di lavoro a partire dalla riforma dei programmi accademici e, a cascata, tracciando linee di indirizzo utili a tutti i sottolivelli del sistema sociosanitario, educativo e lavorativo ecc.
“Molte chiacchiere!”, conclude l’International Choach Federation, ma ancora molto lavoro da fare sul piano dell’adeguamento legislativo ai nuovi paradigmi.
Rocco Di Santo nel 2014 ha pubblicato su “Non autosufficienza e disabilità” una serie di riflessioni sul perché la nuova cultura stenta ad affermarsi o è addirittura ignorata nei servizi sociosanitari ed educativi. Egli rileva, oltre alla difficoltà dello strumento che richiede una formazione lunga, l’incapacità degli operatori al raggiungimento di una visione comune nel percorso di presa in carico delle situazioni di persone con disabilità. Riteniamo che alla base di questa incapacità ci sia il peccato originale di una formazione disciplinare di tipo verticale, separata da altre discipline, con linguaggi apparentemente discordanti tra loro, ma semanticamente con obiettivi simili. E quindi una rigidità da parte dei singoli operatori a rinunciare al proprio lessico disciplinare come se ciò comportasse una perdita di identità professionale. Sostanzialmente una incapacità di decostruzione e ricostruzione verso una nuova identità.
Nel volume “Cor set ICF. Manuale per la pratica clinica”, ed. Giunti, Gerold Stucki e Jerome Bickenbach sottolineano l’importanza che l’ICF riveste per il miglioramento nella pratica clinica, poiché fornisce una descrizione standardizzata del funzionamento. Gli stessi autori sostengono che le informazioni sul funzionamento sono centrali in tutti gli aspetti della pratica clinica: tali dati organizzano la valutazione clinica del funzionamento, l’assegnazione ai servizi sanitari e agli interventi sanitari, la gestione dei servizi e degli interventi, inclusa la valutazione dei risultati (out come). Ciononostante, durante la costruzione di una classificazione esaustiva, è risultato chiaro che l’ICF non era direttamente utilizzabile come uno strumento pratico, in quanto nell’uso quotidiano i medici e gli altri operatori sociosanitari hanno bisogno solo di una parte delle categorie che si trovano nell’ICF. Per rispondere al bisogno di strumenti applicativi basati sull’ICF per la pratica clinica, subito dopo il 2001 fu avviato l’ICF Core Set Project. I Core Set ICF forniscono ai professionisti della salute preziosi strumenti adattati alle specifiche aree dell’assistenza sanitaria. Nel volume Core Set ICF gli operatori sanitari trovano una guida funzionale per l’applicazione dei Core Set ICF nella loro pratica professionale in modo da strutturare la descrizione clinica e la valutazione del funzionamento.
Sulla scorta delle riflessioni conseguenti ai concetti sottesi nell’ICF e nella Convenzione ONU, è nata la necessità di ripensare i modelli di riabilitazione nella direzione della CBR o riabilitazione di comunità.
Il fatto che un documento congiunto Sinfer/Sinpia ne parli come di una speranza per il futuro chiarisce le problematiche sottese al dibattito sulla riabilitazione di comunità.
Nel documento “Joint position paper” OMS-Unesco –ILO, leggiamo che la riabilitazione su base comunitaria è una strategia attuabile all’interno dei processi di sviluppo di una comunità, organizzando la riabilitazione e garantendo l’uguaglianza delle opportunità e l’integrazione sociale di tutte le persone con disabilità. Essa è attuata attraverso l’insieme degli sforzi delle stesse persone disabili, dei loro familiari e delle comunità, e attraverso adeguati servizi sanitari, educativi, professionali e sociali.
La riabilitazione su base comunitaria guarda la persona nella sua globalità, vede tutte le cose insieme (educazione-sport-cultura-riabilitazione ecc.), comprende che ci sono nell’ambiente tantissime risorse (genitori-amici-comunità) che possono offrire la possibilità di acquisire qualche strumento in più, non sostituendo il ruolo dei professionisti ma modificandolo (Sunil, medico indiano).
La CBR considera i disabili ricercatori che, nel loro percorso, maturano la coscienza delle barriere da affrontare e delle cause socioeconomiche della propria disabilità, che diventano consapevoli dei propri diritti e siano essi stessi in grado di produrre cambiamenti concreti nella vita quotidiana.
Il documento OMS parla di ricerca emancipativa ER, al cui interno riveste fondamentale il concetto di empowerment. A tale proposito la dott.ssa Pisano, membro AIFO, ha scritto:
“Credo che ogni essere umano ha il diritto di essere indipendente, di guidare la propria vita e di prendere le decisioni che la riguardano. Spesso le persone disabili…. , si trovano in situazioni dove questi diritti sono limitati o negati. Ritengo che nel nostro lavoro con le persone vulnerabili è fondamentale lavorare al loro fianco, affinché diventino artefici del loro destino, affinché siano uomini come altri”.
Secondo Zimmerman l’empowerment è un costrutto multilivello che si sviluppa secondo una dimensione psicologica individuale (self empowerment), che rappresenta quindi un processo di crescita del singolo individuo che sviluppa nuove abilità. Una dimensione organizzativa in cui si assiste alla mobilizzazione di risorse e possibilità di partecipazione, in cui sono rilevanti i legami tra persone e le dinamiche relazionali con le strutture organizzative. In riferimento a questo aspetto possiamo trovarci di fronte a una situazione di impotenza appresa. Per tale ragione occorre un lavoro di trasformazione di tale impotenza da atteggiamento passivo ad atteggiamento attivo (processo di empowerizzazione). Una dimensione socio-politica e di comunità in cui l’obiettivo è rappresentato dal miglioramento della qualità di vita attraverso le connessioni tra le organizzazioni e le agenzie presenti nella comunità con l’obiettivo ultimo di comunità competente.
Possiamo pertanto definire l’empowerment come un processo che aumenta le capacità di un individuo di compiere delle scelte e di trasformarle nei risultati voluti, rafforzandone le capacità per lo sviluppo autonomo e determinato (coscienza di sè).
Zimmermann sostiene che in ciascun individuo, a seconda del tipo di struttura di personalità, può verificarsi, rispetto all’apprendimento, un atteggiamento definito come impotenza appresa (learned helplesseness), quando l’individuo manifesta un senso di inefficacia delle proprie azioni rispetto ad un particolare evento, ed un apprendimento fiducioso (learned hopefulness) con la percezione di essere capaci, avere massima fiducia in se stessi e apprendere con speranza.
Si delinea in tal modo un percorso metodologico in cui, a seconda del livello in cui si opera, si pone il medesimo problema di innescare circuiti per i quali da una situazione di impotenza appresa si passi ad una posizione di apprendimento fiducioso.
Strettamente connesso al concetto di empowerment è un altro concetto definito come resilienza. Con questo termine si intende la capacità e/ o il processo che forniscono una riorganizzazione positiva della propria vita, nonostante l’aver subìto situazioni difficili che facevano pensare ad un esito negativo.
Rutter attribuisce a tale termine un valore non solo di resistenza, ma anche di capacità dinamica di superare le difficoltà; inoltre il termine resilienza, si applica non solo alle persone che hanno subìto un trauma, ma anche a coloro che stanno intorno e che a qualsiasi titolo esercitano un ruolo (genitoriale, educativo, curativo, ecc). Questi ultimi sono stati definiti da Kyrulnich tutori della resilienza.
Il concetto di resilienza è importante, perché obbliga ad un cambiamento metodologico da una visione retrospettiva ad una visione prospettica.
Siamo abituati, infatti, a pensare che, nel momento in cui la macchina riceve un trauma, ne soffre l’intero apparato psichico. Questo atteggiamento crea la rappresentazione mentale di un destino rigido ed irreversibile senza via di uscita (Kyrulnich), mentre gli individui sono ineguali davanti ai rischi e la loro vulnerabilità aumenta con il sommarsi dei fattori di rischio. Questi ultimi inoltre (rischi) si distinguono in distali e prossimali. I primi sono individuabili in contesti ristretti (famiglia), mentre i secondi si individuano in contesti allargati (scuola,comunità, ecc.).
Nell’ambito della ricerca sulla resilienza, sono stati individuati gli indicatori o fattori di resilienza. Ne citiamo alcuni tra i più significativi: attaccamento primario, sostegno e aiuti di esterni, credenze religiose e politiche, confronto con qualcuno che possa essere preso come modello, assunzione di responsabilità calibrate con la persona, caratteristiche costituzionali di personalità, la possibilità di fare esperienze che aumentano l’autostima-autoefficacia e capacità di far fronte alle situazioni. La molteplicità di indicatori di resilienza,quindi, sottintende la possibilità, sia a livello individuale che collettivo di potere aprire più fronti di aiuto in situazione di vulnerabilità.
I tutori della resilienza si possono individuare dovunque nel contesto di appartenenza (un maestro, un sacerdote, un riabilitatore, un organizzazione sindacale, una associazione no profit ecc.). Se ne deduce che anche un’ aggiustamento sistemico organizzativo può diventare elemento di resilienza.
Si parla infatti di resilienza di comunità, e sembrerebbe che empowerment e resilienza possano avere aree di sovrapposizione. Secondo Zimmerman (2004), infatti, resilienza ed empowerment condividono l’enfasi su fattori come la partecipazione, la padronanza, il coinvolgimento. Tuttavia la resilienza si focalizza sull’adattamento a fattori di rischio, mentre l’empowerment ha come focus la giustizia sociale ed il concetto di comunità competente.
Si può pertanto concludere che la resilienza sta dentro l’empowerment come metodologia di supporto che da ambiti di rischio può essere esportata ad ambiti diversi, primo fra tutti quello della cittadinanza attiva.
Per attuare una riabilitazione di comunità in grado di garantire la massima autonomia possibile (indipendent living) sono quindi necessari molti cambiamenti.
E’ evidente che la strada da percorrere appare faticosa e lunga. In particolare è urgente la ricerca e il confronto su buone prassi. Occorrono infatti nuovi saperi metodologici e strumentali.
In prima istanza è necessario saper utilizzare al meglio lo strumento ICF, promuovendone la cultura in contesti vari (vita domestica, scuola, lavoro, tempo libero). Allargando la platea delle persone consapevoli degli obiettivi in esso contenuti e incentrando quindi gli interventi abilitativi sui domini di partecipazione statuiti dall’ICF, correlati all’età della persona, al proprio desiderio e individuando di volta in volta le attività necessarie al loro sviluppo, distinguendo tra abilità sottese alla performance e fattori contestuali utili alla realizzazione della performance stessa, quando ci si accorga che il recupero funzionale non è possibile. Introdurre inoltre la metodologia dell’empowerment, affinché nel percorso abilitativo non si perda di vista la massima autonomia possibile come punto di arrivo della coscienza del sé, aspetto nodale per evitare la costruzione di falsi sé con rischio di destrutturazione psicotica (problema particolarmente avvertito nelle disabilità congenite con particolare riguardo alle disabilità mentali).
Favorire la metodologia della medicina narrativa a supporto della medicina basata sull’evidenza secondo l’acronimo EBM/EBN. Come è noto, quest’ultima è caratterizzata dall’approccio biografico alla malattia. Essa recupera racconti di vita scritti e/o orali, sollecitati o autoprodotti, di soggetti indicati come rappresentativi di una certa realtà, o significativi proprio per la particolarità del percorso esistenziale.
Il tentativo è quello di superare un atteggiamento positivistico in favore di una narrazione tesa a valorizzare gli aspetti soggettivi e psicologici e quelli oggettivi relativi all’analisi del contesto. La persona al centro, con la sua identità culturale e sociale ordina ed attribuisce senso alla propria esperienza,connettendola ad un comportamento collettivo, come parte di un continuum di mutamento storico.
La medicina narrativa non opera in contrasto con la medicina basata sull’evidenza, essa costruisce un percorso di cura personalizzato e condiviso, favorendo decisioni abilitative-riabilitative più complete, personalizzate, efficaci e appropriate attraverso i sottoelencati strumenti metodologici: colloqui condotti con competenze narrative, interviste narrative semi-strutturate; parallel charts; story sharing intervention (SSI); scrittura riflessiva; narratore vicario.
Valorizzare i saperi informali per riconnettere la persona in una visione globale ed evitare il conflitto con gli utenti e i propri familiari favorendo gruppi di auto-aiuto e di parent training.
Acquisire nuove competenze disciplinari, superando atteggiamenti pregiudizievoli multipli: di tipo culturale, tecnico-scientifico e di governance. Un esempio ostativo di tipo tecnico-scientifico è rappresentato dall’idea che debbano esistere prerequisiti per accedere alla comunicazione, oppure che esiste una sequenzialità nello sviluppo: prima si cammina e poi si parla.
Di qui la necessità di riconvertire gli operatori professionali da operatori di abilità ad operatori di partecipazione.
Acquisire nuove competenze trasversali interdisciplinari compendiabili in prima istanza nella capacità di lavoro di rete.

In conclusione

Stefano Marturirni e Barbara Chicca chiariscono bene la situazione.
Adottare compiutamente il linguaggio ICF implica importanti trasformazioni sia culturali sia organizzative, a più livelli: politico, istituzionale, dei servizi specialistici legati alla disabilità e più in generale del contesto sociale nel quale la persona con disabilità è immersa. 
Si rende necessario, in questa ottica, assicurare la continuità del sostegno tra i diversi servizi che si occupano della persona con disabilità, sia in senso orizzontale che verticale lungo tutto il percorso evolutivo, ad evitare “buchi” e cadute negli interventi che si verificano spesso nei passaggi da una fase alla successiva e che quasi sempre corrispondono ad un passaggio di competenze da un servizio ad un altro. Si rende necessario altresì uniformare i linguaggi tra i diversi operatori e i diversi servizi, pur nel rispetto delle specifiche competenze “tecniche”, ma che devono collocarsi in un quadro omogeneo di visione, osservazione e programmazione ad evitare inutili, se non dannose, compartimentazioni. 
Si rende infine necessario dotare, per ogni bisogno e per ogni fase evolutiva del bambino/persona con disabilità, il linguaggio ICF/ICF-CY di strumenti operativi condivisi, e dall’ICF dedotti, che consentano di declinarne i principi in azioni concrete sulla persona stessa e sui suoi contesti di vita. 
Non ultimo è il problema di chi, nei diversi momenti e nelle diverse situazioni, si assume la responsabilità di “coordinare” i diversi interventi di sostegno spesso necessari e spesso contestuali sui diversi fronti e sui diversi bisogni della persona con disabilità, curandone non solo la puntualità e la garanzia dell’intervento, ma altresì la “coerenza” intrinseca dei diversi sostegni, coerenza che può solo derivare da una lettura condivisa prima, e da un progetto condiviso poi; una assunzione di responsabilità, si ribadisce, che costituisce il primo punto di una vera “presa in carico”.