Le politiche di attivazione in Europa e in Italia
G. Giangreco
3/2008 n.s
Il Welfare to Work: occupabilità e capacità
L’esclusione di un numero elevato di cittadini dal mondo del lavoro rappresenta uno dei principali problemi di policy dei paesi dell’Unione europea. Oltre che da ovvie ragioni etiche, questa attenzione è giustificata da almeno due motivi: il primo riguarda il funzionamento stesso del mercato del lavoro e la sua capacità di integrare anche le fasce più deboli; il secondo, collegato al precedente, ha a che vedere con la sostenibilità dei sistemi assistenziali e previdenziali che non sono più in grado di tollerare livelli di disoccupazione elevati per una fascia così ampia di popolazione (cfr. Checcucci, 2005, p. 345). La partecipazione al mercato del lavoro è così proposta come ideale strumento di inclusione, possibilmente sostitutivo delle misure di assistenza[1], e l’esclusione lavorativa è affrontata attraverso lo sviluppo di politiche che tendono alla diretta responsabilizzazione del cittadino rispetto al proprio destino personale e professionale.
Queste politiche, denominate welfare to work o workfare, perseguono l’obiettivo di rendere la condizione lavorativa più competitiva rispetto alla misure passive, come ad esempio la dipendenza dai sussidi. Contestualmente alla loro applicazione, vengono apportate modifiche restrittive al sistema dei benefici, in modo da spingere l’inoccupato o il disoccupato a cercare attivamente un impiego. Tali restrizioni consistono in genere in vere e proprie sanzioni, che possono prevedere anche la sospensione della provvidenza economica statale per coloro che non accettino il lavoro al termine del periodo formativo stabilito. Nel workfare, il «principio di responsabilità individuale» assume dunque una posizione centrale, e l’attivazione del cittadino è operata con riferimento quasi esclusivo al mercato del lavoro.
Il sistema di welfare to work ha attecchito in particolare nei paesi anglosassoni, date le condizioni macroeconomiche specifiche di questi contesti (bassi salari minimi, carico fiscale contenuto, ecc.). Infatti, in questo tipo di scenari la difficoltà non è tanto quella di trovare l’occupazione, quanto di spingere le persone ad accettare impieghi le cui retribuzioni spesso non consentono di uscire dallo stato di povertà.
In Italia, la situazione è molto diversa. Nel nostro paese, per poter attivare programmi seri di welfare to work sarebbe necessario disporre di un sistema equilibrato di protezione sociale, che si avvicini agli standard europei, e avere a disposizione un servizio per l’impiego più efficace ed efficiente di quello attuale. Al contrario, nel periodo 1991 – 2000, la percentuale di spesa sociale italiana sul PIL è rimasta sempre inferiore di circa due punti rispetto alla media europea. Dal Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, pubblicato nel 2005, si evince che l’Italia è, insieme a Grecia e Portogallo, il paese che destina ai servizi di protezione socialeuna delle quote più basse, tra lo 0,6 e lo 0,8% del PIL. A ciò si aggiunge il pesante squilibrio esistente tra erogazioni monetarie e servizi in natura, che caratterizza da sempre il sistema italiano di welfare e che rappresenta un ostacolo ulteriore all’implementazione di politiche di attivazione. Questa difficoltà è inoltre amplificata dal fatto che le politiche attive per il lavoro «si trovano a scontare una condizione di sostanziale marginalità principalmente in ragione del ritardo e della modesta incisività con cui si sono sviluppate» (Burgalassi, 2007, p. 22).
Nei paesi dell’Europa occidentale e in quelli scandinavi, il termine workfare è sostituito con quello di attivazione o inserimento. In questi contesti, la finalità precipua non è di limitare la dipendenza e contenere i costi finanziari, ma operare per l’inclusione sociale e la mobilità professionale, che permettano ai beneficiari di migliorare le competenze e le capacità, di aver cura della salute fisica e mentale, di incrementare la qualità delle relazioni sociali, di aumentare il grado di appartenenza alla società. Pertanto, si privilegiano non tanto gli obblighi quanto i servizi complementari suscettibili di favorire l’inclusione sociale.
I cambiamenti in corso all’interno del sistema di welfare non sono quindi di natura semplicemente tecnica, ma il risultato di un chiaro disegno politico intriso di presupposti valoriali, dove l’obiettivo della piena occupazione può anche celare una prescrizione morale nei confronti degli individui.
L’obbligazione morale si coglie in modo più chiaro se si confronta la politica per l’occupabilità auspicata dall’OCSE con l’«approccio delle capacità» riconducibile all’economista Amartya Sen (cfr. Sen, 1990; 1992; 1993; 1999). I due modelli, pur presentando aspetti comuni, differiscono notevolmente nel corso della concreta implementazione dei programmi, poiché il primo non presta attenzione alle singole situazioni personali ed alle specificità dei contesti locali, così come è in grado di fare il secondo. La tabella che segue riassume efficacemente queste osservazioni:
Tabella 1: Confronto fra le politiche per l’occupabilità e l’approccio delle capacità
Politiche per l’Occupabilità (OCSE)
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Approccio delle Capacità (Sen)
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Caratteristiche comuni |
· Rilevanza delle strutture locali decentrate
· Ricostruzione dell’autonomia individuale
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· Rilevanza delle strutture locali decentrate
· Ricostruzione dell’autonomia individuale
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Obiettivi |
· Aumentare il tasso di occupazione
· Il bene comune è statisticamente predefinito al fine di valutare il valore dell’azione
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· Funzionamenti di valore definiti mediante le procedure di scelta sociale
· Modalità di accesso alle attività definite nell’ambito di una situazione specifica
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Tipologie di responsabilità |
· Responsabilità individuale
· Attribuzione della colpa
· Sguardo rivolto al passato
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· Responsabilità collettiva
· Responsabilità orientata al compito
· Sguardo rivolto al futuro
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Ruolo delle agenzie locali |
· Strumenti esecutivi vincolati ad obiettivi centrali (valutazione ex post)
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· Attori in ampia misura autonomi e responsabili della situazione
· Implementazione delle politiche sociali
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Fonte: Bonvin, Farvaque, 2003, tr. it., p. 58.
La tendenziale sostituzione del concetto di disoccupazione con quello di occupabilità indica la crescente attenzione posta sull’attore piuttosto che sulle variabili di sistema. La vulnerabilità dei soggetti rispetto al mondo del lavoro è interpretata come effetto delle loro deficienze in termini di competenze e volontà, e di presunte distorsioni del sistema di incentivi, come ad esempio le provvidenze economiche ed i sussidi considerati troppo generosi, poiché inducono eccessiva dipendenza dal welfare.
La strategia europea per l’occupazione (SEO), a differenza delle prescrizioni dell’OCSE, mitiga il peso della responsabilità individuale e accresce il ruolo delle istituzioni nel migliorare le capacità della forza lavoro effettiva e potenziale. Abbiamo così almeno due versioni dell’occupabilità: occupabilità iniziale e occupabilità interattiva (cfr. Grazier, 1999). La prima addebita esclusivamente all’individuo la responsabilità del proprio percorso nel mercato del lavoro; la seconda sostiene la necessità che le responsabilità individuali e collettive siano complementari. Quest’ultima può essere definita come «la capacità relativa del singolo di conseguire un’occupazione significativa data l’interazione tra le sue caratteristiche personali e il mercato del lavoro» (Bonvin, Farvaque, 2003, tr. it., p. 56). C’è inoltre da osservare che questa seconda versione dell’occupabilità appare pienamente in linea con la concezione delle capacità combinate formulata da Sen[2].
L’idea di occupabilità interattiva è stata fortemente criticata per l’eccessiva discrezionalità e libertà concessa agli attori e non è chiaramente delimitata l’estensione temporale dell’intervento. Infatti, poter tener conto del contesto locale e della situazione personale del soggetto in cerca di lavoro non esime dal rischio che il potenziale candidato possa rifiutare la proposta che gli viene fatta, a prescindere dal suo valore. A ciò si aggiunge la possibilità che le strategie locali varino da un ente all’altro, generando polemiche rispetto a ciò che si ritiene giusto o ingiusto. Quindi la pluralità di basi informative potrebbe generare il caos piuttosto che aiutare a risolvere i problemi.
Ciononostante, rispetto all’aderenza a regole meccaniche e rigide, l’attenzione alle capacità consente un approccio diverso, che non fa riferimento ad un unico modello, ma orienta le azioni verso l’adattamento al contesto. Questa vaghezza teorica sposta l’attenzione sulla fase di implementazione, che è lo stadio pratico dove si generano e risolvono i problemi.
L’Active Welfare State
L’«attivazione» è pertanto una policy notion che indica la trasformazione a vari livelli delle funzioni e delle strutture del welfare (cfr. Barbier, 2005, tr. it., pp. 260-7). Tale trasformazione è definita in modo diverso a seconda delle premesse teoriche e dei riferimenti valoriali utilizzati. Con la diffusione dei termini workfare e welfare to work, ad esempio, si è posto l’accento sulla componente lavorativa, mentre con l’utilizzo delle espressioni welfare community e welfare mix si è voluto dare enfasi, rispettivamente, alle forme di coordinamento ed integrazione socio economica e al ruolo degli attori.
Queste diverse denominazioni, con i loro riferimenti al lavoro, alla comunità e alla collaborazione pubblico-privato, indicano alcune delle prospettive più in voga nella retorica politica e, anche se parzialmente, nella prassi. Tuttavia, singolarmente considerate, rappresentano in modo ristretto o parziale il cambiamento complessivo. Inoltre, «sembrano sottolineare l’implicita volontà di sostituire la componente redistributiva del vecchio welfare state … con il mercato (del lavoro), la reciprocità (familiare e comunitaria), le forme associative di concertazione pluralista (fra attori del primo, secondo e terzo settore, e delle comunità locali)» (Villa, 2007, p. 94). Al contrario, il concetto di Active Welfare State appare più efficace dei precedenti nel cogliere la globalità dei cambiamenti che interessa il nostro sistema di welfare (cfr. Kazepov, 2002). Esso presenta infatti alcuni vantaggi: non predilige forme di integrazione in luogo di altre, non orienta verso specifiche soluzioni (ad esempio il lavoro) e non parteggia a favore di un tipo di attore (ad esempio famiglia vs terzo settore), sottolineando piuttosto il valore di tutti i soggetti sia pubblici che privati.
L’emergere di nuovi rischi e problemi sociali, il modo nuovo di percepirli, le responsabilità degli attori nel produrli e nell’affrontarli, i nuovi modi di prevenirli e risolverli costituiscono i quattro fattori principali alla base delle dinamiche evolutive dei sistemi di welfare europei (cfr. Van Berkel, 2003). La relazione sistemica fra questi quattro elementi fornisce una rappresentazione di ciò che l’espressione Active Welfare State sottende. In tal modo è possibile cogliere i modi e le forme prevalenti di relazione e di scambio fra gli elementi, nonché le particolari e differenti combinazioni (modelli, strutture e pratiche) (cfr. Fig. 1):
Figura 1: Dimensioni del cambiamento nell’Active Welfare State
A. Nuovi rischi e D. Nuovi modi
problemi sociali di prevenirli/risolverli
ACTIVE
WELFARE
STATE
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B. Nuovi modi C. Nuovi modi di definire
di percepirli le responsabilità degli attori
Fonte: Villa, 2007, p. 95.
L’interazione fra (A) e (B) sta ad indicare la costruzione sociale dei fenomeni, che influisce sull’attribuzione di responsabilità agli attori. Quest’ultima contribuisce in modo decisivo nel definire le premesse normative (C) e la traduzione delle leggi in politiche (D). La valutazione degli esiti delle politiche (D) concorre a sua volta a confermare o modificare tanto le premesse normative (C), quanto la stessa percezione/definizione dei problemi (B – A). La relazione tra (C) e (D) orienta pertanto i modi di formazione delle politiche, ovvero i processi di costruzione dellagovernance (cfr. Villa, 2007, pp. 94-9).
Lo schema è in grado, ad esempio, di descrivere efficacemente il percorso di costruzione della LN 381/91 (Disciplina delle cooperative sociali) e della LN 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili). I due provvedimenti sono infatti l’espressione di un modo nuovo di percepire e definire fenomeni sociali emergenti, che si istituzionalizzanno attribuendo specifiche responsabilità agli attori pubblici e del privato sociale, e si traducono in politiche sociali e del lavoro. Secondo la proprietà ricorsiva del sistema, gli effetti di queste politiche concorrono a loro volta nella ridefinizione tanto delle premesse normative e valoriali, quanto del modo di percepire i problemi.
Le forme dell’attivazione
Le politiche di attivazione dovrebbero mirare sempre al cambiamento in termini di acquisizione di abilità e autonomia, ovvero di apprendimento da parte degli attori individuali ed organizzativi. Pertanto, dato uno specifico contesto territoriale (nazionale, regionale, locale), il sistema di welfare corrispondente può essere considerato come un sottosistema di un sistema complesso, che si concretizza attraverso processi istituzionalizzati che possono favorire o ostacolare l’integrazione di individui, gruppi e organizzazioni. Il problema consiste dunque nel comprendere che cosa caratterizza il passaggio dalle politiche di protezione a quelle di attivazione, dai modelli di government a quelli di governance[3].
La SEO intende l’attivazione come co-partecipazione, nel senso che ciascun attore (pubblico e privato) contribuisce nella costruzione del benessere sociale. Gli Stati nazionali europei hanno prodotto forme diverse di attivazione sintetizzabili in quattro approcci generali (cfr. Van Berkel e Møller, 2002). Il primo, denominato degliottimisti dell’autonomia, fa esclusivo affidamento sulle capacità e volontà dei soggetti di realizzare forme di inclusione e partecipazione attraverso la propria iniziativa e secondo i propri bisogni. Ciò che è indispensabile è fornire ai cittadini i mezzi sufficienti a soddisfare i bisogni di base. I sostenitori di questo approccio sono favorevoli a misure di reddito minimo incondizionato, di cui il reddito di cittadinanza è la versione più radicale. Il secondo orientamento, detto degli ottimisti dell’indipendenza dal welfare, sostiene che l’intervento dello Stato non aiuta l’iniziativa privata delle persone. I dispositivi di welfare creano dipendenza. Pertanto il libero mercato non regolato fornirà sufficienti opportunità ed incentivi per inserirsi nel mondo del lavoro. Il terzo, sostenuto dagli ottimisti del paternalismo, prevede che lo Stato prescriva alcuni canali d’inclusione per sviluppare emancipazione. Questi percorsi «forzati» sono propri di molti paesi dell’Unione. Infine, gli ottimisti dell’attivazione. Essi sostengono l’opportunità di far leva sulle motivazioni personali per stimolare la partecipazione. Tuttavia, chi aderisce a questa corrente di pensiero è dell’opinione che una parte dei gruppi oggetto delle politiche sociali è priva delle risorse indispensabili per realizzare l’inclusione attraverso la partecipazione, anche quando i bisogni di base sono soddisfatti. Per tale motivo le azioni di politica sociale hanno lo scopo di accompagnare i soggetti più svantaggiati nel loro percorso di emancipazione.
L’impatto di questi approcci sulla concreta attivazione dei cittadini è mediato in modo significativo dalle transazioni che si realizzano tra gli operatori delle politiche e i loro clienti. Infatti, gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli sono definiti attraverso complesse modalità di contrattazione e tali negoziazioni sfociano spesso in accordi tra le parti che regolano diritti e doveri.
Gli approcci degli ottimisti del paternalismo e degli ottimisti dell’attivazioneattribuiscono, rispetto agli altri due, un valore evidente alle relazioni operatore-cliente e la qualità di questi incontri ha un forte impatto sui processi e i risultati di attivazione. In termini idealtipici, possiamo considerare queste due modalità di attivazione come l’espressione di due maniere differenti di strutturare i rapporti tra lo Stato e i cittadini. Nel primo caso abbiamo un orientamento centrato sull’istituzione o top-down, nell’altro centrato sul cliente o bottom-up.
L’attivazione è pertanto una categoria tutt’altro che univoca. Malgrado la decennale presenza nel dibattito politico, essa si presta a più di una interpretazione, tanto da ispirare prassi assai divergenti fra loro nella forma e nella sostanza. Si presenta quindi come «un comune processo di riforma, adattabile a contesti variabili e destinato a produrre risultati diversi» (Barbier, 2005; tr. it., p. 258).
É dunque lecito, di fronte a questa molteplicità di significati, chiedersi:
– chi (e insieme a chi) è coinvolto nei percorsi di attivazione, che implicano il coinvolgimento degli attori in processi più o meno intensi di apprendimento/cambiamento?
– quali ruoli giocano i singoli attori all’interno delle dinamiche organizzative attivate dalle specifiche misure di welfare?
– come i singoli attori partecipano alle varie forme di scambio e coordinamento?
L’analisi dei processi di attivazione non può svolgersi ignorando tali quesiti, e non può fare a meno di considerare una serie di variabili relative al rapporto fra le istituzioni ed i destinatari dei servizi. La prima di queste variabili è la responsabilità.
Gli ottimisti dell’indipendenza dal welfare partono dal presupposto che l’istituzione, fornendo alle persone protezioni incondizionate, opera una sostituzione di responsabilità nei loro confronti, mentre sarebbe necessario che i cittadini si attivassero in modo autonomo. Ciò richiede però risorse (materiali ed immateriali), capacità e potere, mancando i quali appare francamente difficile attendersi che gli attori individuali siano in grado da soli di comprendere e definire la situazione problematica, individuare soluzioni possibili e costruire percorsi praticabili. La sostituzione di responsabilità si presenta peraltro tutte le volte in cui, secondo la logica top down, si propongono interventi su bisogni istituzionalmente pre-determinati, mentre il punto di partenza dell’attivazione è il supporto alla partecipazione delle persone in condizioni di disagio e non l’offerta di un set di misure definite dall’esterno.
La seconda variabile è il potere. L’acquisizione di maggior potere da parte dei destinatari implica la speculare cessione di potere da parte di coloro che lo detengono per antonomasia, ossia le istituzioni e gli operatori. É infatti soprattutto sul cambiamento relativo all’asimmetria (più o meno marcata a seconda delle situazioni) della relazione operatore/cliente che andrebbe valutato il successo di una politica e non sull’esclusivo conseguimento di risultati di natura quantitativa, come ad esempio la riduzione dei sussidi o l’aumento numerico degli inserimenti lavorativi. L’obiettivo principale dell’attivazione è quindi la promozione nei cittadini della capacità di«governo delle dipendenze»[4].
La terza variabile è il rapporto individuo/contesto. Le riflessioni sul potere e la responsabilità inducono a chiedersi fino a che punto è legittimo esigere l’attivazione soltanto da parte degli individui. Le condizioni di esclusione, che motivano la promozione di politiche specifiche, hanno origini complesse, legate sia al contesto socioeconomico che a variabili di natura psicosociale. L’impoverimento dei legami affettivi, la dissociazione dai contesti e la riduzione progressiva dello scambio di informazioni tra le persone alimentano le traiettorie di esclusione. L’intreccio fra la dimensione sociale ed individuale appare dunque piuttosto chiara, ma i principali approcci all’attivazione sembrano non tener conto degli ostacoli generati dal contesto ambientale, focalizzando l’attenzione sulle responsabilità individuali. Tutto ciò amplifica le contraddizioni e le discrepanze tra la «retorica» e la realtà. Gli interventi risultano allora incapaci di produrre l’integrazione dei soggetti e «si limitano a una funzione di contenimento passivo e temporaneo, che rende le politiche di attivazione particolarmente passive nei loro effetti» (Villa, 2007, p. 104).
La quarta variabile riguarda la partecipazione. Se per attivazione intendiamo un insieme di azioni che mira ad innalzare le abilità sociali e relazionali, essa non può non favorire la partecipazione graduale alla progettazione dei percorsi di emancipazione dallo stato di disagio. Partecipare significa poter influire nella definizione dei bisogni e intervenire anche nei processi decisionali e nelle fasi di valutazione e verifica dei risultati.
Tipi di «attivazione» e ruolo delle istituzioni
In che modo le istituzioni favoriscono o limitano l’attivazione individuale? Ciò dipende innanzitutto dalle strategie o modalità di cambiamento adottate. Ne esistono almeno quattro (cfr. ibidem, pp. 111-5):
1 autoritario-coercitive
2 empirico razionali
3 utilitaristico-competitive
4 normativo-educative.
La prima strategia si fonda sulla differenza di potere e sull’incapacità presunta degli attori di saper prendere delle decisioni. La relazione è quindi unidirezionale e centrata sul comando. Essa può essere utilizzata nel sostegno a persone che necessitano, almeno nella fase iniziale, di un certo grado di protezione, al fine di creare le condizioni minime per ridurre gradualmente il rapporto di dipendenza insito nel modello stesso.
La seconda si basa sulla razionalità degli attori. La relazione è sempre unidirezionale e centrata sulla spiegazione che può essere veicolata attraverso procedure formali, insegnamenti, rituali. L’efficacia si basa sul presupposto che gli attori razionali recepiscono le conoscenze adeguate alla situazione e apprendono le risposte più corrette rispetto ai problemi. L’uso di questa strategia nel corso della relazione di aiuto comporta il rischio di un eccesso di razionalità, che inibisce lo sviluppo della dimensione emotiva, e il pericolo di sostituire la spiegazione con l’esperienza.
La terza modalità fa riferimento al principio dell’homo oeconomicus e poggia sulla convinzione che l’interesse ed il bisogno individuale spingono le persone ad attivarsi nella ricerca della massima utilità, dove il cambiamento deriva dalla spinta a migliorare le proprie prestazioni. Il rischio è la supremazia della competizione sulla cooperazione, che produce spinte degenerative tese a fare propria la logica vinco-perdi di tipo puramente strumentale, dove gli attori sono percepiti soltanto come avversari.
La quarta strategia considera legittimi i bisogni degli attori così come essi li percepiscono e definiscono e fa affidamento sulle loro potenzialità di cambiamento delle norme implicite ed esplicite, intendendo con queste ultime i modi consueti di soddisfare i bisogni e risolvere i problemi. La relazione è bidirezionale e centrata sulla partecipazione. Questo modello permette la soluzione negoziata delle controversie. Il rischio potrebbe derivare dall’eccessiva formalizzazione, che può ingigantire la dimensione negoziale fino a far perdere di vista il senso e l’oggetto della relazione. La componente degenerativa può invece derivare da eventuali atteggiamenti collusivi di chi detiene la posizione di leadership, che, nell’interpretare il significato di partecipazione, rende opache le differenze di ruolo, deprimendo così le potenzialità di cambiamento.
L’approccio degli ottimisti dell’autonomia appare parzialmente affine alla strategia utilitaristico-competitiva, dove le persone sono lasciate alla loro libera iniziativa con l’esclusivo sostegno economico. L’approccio degli ottimisti dell’indipendenza dal welfare si basa molto chiaramente su strategie di natura utilitaristico-competitiva. L’approccio degli ottimisti del paternalismo si avvicina al modello autoritario-coercitivo, dove la coercizione è la leva del cambiamento, mentre si danno per scontate l’incapacità e l’indisponibilità dei soggetti ad attivarsi. Infine, gli ottimisti dell’attivazione sono propensi ad utilizzare la strategia normativo-educativa, poiché fanno molto affidamento sulla relazione e la partecipazione, che sono considerate necessarie per il cambiamento.
Sulla base di queste considerazioni è possibile individuare tre tipi puri di «attivazione» (cfr.ibidem, pp. 121-3):
1 intesa come partecipazione ad un’attività in cui i cittadini sono considerati «oggetti» dell’intervento, sostanzialmente privi di potere, anche quando si prevedono forme di rappresentanza formale all’interno delle istituzioni (passive participation). Prediligono quest’idea le politiche ispirate al welfare to work e al modello paternalistico;
2 nel senso di sostegno al cambiamento del contesto (relazioni e sistema di appartenenze), in cui i cittadini partecipano attivamente nel perseguimento di obiettivi pre-determinati e sono parzialmente coinvolti nei processi decisionali (problem solving participation). È il tipo puro sotteso alle politiche che si rifanno agli ottimisti dell’attivazione e alle strategie di cambiamento di tipo normativo-educativo;
3 definita come partecipazione degli attori ai vari livelli di formulazione e attuazione delle politiche (problem setting participation). La partecipazione è intesa come un diritto ed i cittadini sono riconosciuti come soggetti attivi, nei confronti dei quali l’obiettivo dell’intervento è di promuovere in primo luogo le loro «capacità», riconoscendo il potere legittimo di interazione con i referenti politici ed i tecnici. Tutto ciò finalizzato ad implementare la partecipazione come pratica riflessiva, deliberativa e di costruzione politica.
Quest’ultimo tipo dovrebbe orientare in modo significativo l’agire istituzionale. In esso l’azione promozionale o abilitante è infatti presente anche ad un livello superiore di empowerment, «quello della partecipazione alla programmazione e alla implementazione dei servizi pubblici tramite l’associazionismo sociale (o di Terzo settore)» (Paci, 2005, p. 223). L’attenzione si focalizza quindi sul piano della partecipazione degli individui agli spazi pubblici di discussione e deliberazione delwelfare locale e sulle forme di rappresentanza e intermediazione sviluppate dall’associazionismo di Terzo settore.
Nel contesto italiano l’azione di rappresentanza e intermediazione dei soggetti di Terzo settore è presente ed efficace a livello di Piano sociale comunale o di Piani di zona. In tal modo, un numero consistente di problemi viene affrontato attraverso procedure di tipo cooperativo o inclusivo, coinvolgendo una molteplicità di soggetti pubblici e privati, istituzionali o associativi. Tuttavia, lo sviluppo di questi processi non avviene sempre in modo virtuoso. Sono spesso in agguato dinamiche di cooptazione o, ancor peggio, di collusione tra amministrazione pubblica e soggetti del privato sociale. La possibilità di limitare o escludere forme di perversione partecipativa dipende dal ruolo di leadership politica e amministrativa svolto dall’Ente locale (cfr.ibidem, p. 230). Tutto ciò introduce l’esigenza di monitorare i processi di decision making istituzionale e amministrativa. Solo così si è in grado di comprendere il funzionamento dell’albero decisionale (Pennisi e Consoli, 2003; Agodi, 2003) e la sua capacità o incapacità strutturale, culturale, cognitiva e politica di produrre reale attivazione.
La valutazione delle politiche di attivazione
Nella prospettiva dell’attivazione, le politiche del lavoro degli ultimi due decenni si sono sviluppate rapidamente seguendo fondamentalmente tre linee direttrici. La prima, come abbiamo visto, segna il passaggio da misure passive a programmi attivi, nei quali i benefits sono subordinati a particolari responsabilità da parte dei beneficiari. La seconda riguarda il carattere «individuale» degli interventi, che permette di superare i programmi standardizzati basati su categorie predefinite di rischio sociale. L’ultima si riferisce al decentramento, ossia la tendenza ad attribuire ai soggetti locali maggiore libertà di azione, invece di considerarli come meri strumenti esecutivi nelle mani del governo centrale.
Questo radicale cambiamento di strategia comporta una profonda revisione del modo di considerare le fasi del processo di attuazione, dal momento che la classica distinzione tra il momento normativo o di definizione della policy, quello pragmatico o di implementazione e quello valutativo o di accertamento non funziona più (cfr. Bonvin e Farvaque, 2003, tr. it., p. 49). Infatti, la rigorosa separazione temporale e funzionale riduce notevolmente la capacità di aggiustamento della policy, poiché la valutazione avviene solo ex post, rallentando notevolmente il processo di«adattamento» della legislazione.
Nella fase attuale il modello dovrebbe quindi basarsi sull’interdipendenza permanente di questi tre momenti, consentendo così, almeno in linea teorica, un«aggiustamento» molto più rapido. In questo nuovo contesto, la scelta della giustabase informativa è di cruciale importanza. Il valutatore dovrebbe scegliere quella più idonea alla situazione della persona e al contesto locale di riferimento, considerando iset di responsabilità e di capacità degli attori in gioco. La domanda da porsi sarebbe quindi la seguente: «Cosa è in grado di fare la persona con gli strumenti che l’Istituzione è in grado di fornirle?» (cfr. ibidem, tr. it., p. 52).
I processi di valutazione si fondano su un accordo formale che definisce ciò che ci si aspetta in un dato contesto dai soggetti coinvolti. Tale accordo contiene le «basi informative» del giudizio valutativo, ma di quali informazioni si debba tener conto e quali invece vadano scartate dipende dalle scelte sociali che istituiscono il patto (cfr. Sen, 1999; tr. it., pp. 36-9). Dunque, la pertinenza degli indicatori utilizzati nella valutazione non dovrebbe dipendere dal loro valore assoluto, ma dal fatto che sono il risultato di una scelta responsabile compiuta da tutti gli attori in gioco.
Gli studi compiuti da Sen documentano in modo efficace la pluralità di basi informative (Informational Basis of Judgement in Justice: IBJJ) a cui i valutatori possono fare riferimento per compiere le loro analisi (cfr. Sen, 1990; 1992; 1993; 1999). L’autore considera uno spazio specifico in cui valutare la «disuguaglianza» e lo identifica nelle capacità di scegliere funzionamenti. La persona si sviluppa nella sua integrità attraverso molteplici funzionamenti, quali ad esempio un'adeguata nutrizione, una buona salute o anche la partecipazione alla vita sociale e lavorativa. Le varie combinazioni di questi funzionamenti esprimono le capacità (di funzionare) e l'insieme delle capacità configura a sua volta la libertà degli individui di scegliere tra le molteplici possibilità.
La libertà è quindi per Sen la concreta opportunità, il potere effettivo di acquisire ciò che si sceglierebbe avendone la possibilità. In questo senso è corretto parlare, ad esempio, di libertà dalla disoccupazione, dal momento che gli uomini, avendone la possibilità, sceglierebbero una vita priva di disoccupazione. Ciò comporta, conseguentemente, il rifiuto di interpretare la libertà esclusivamente comecontrollo diretto su tutto ciò che influisce sulla propria vita. Infatti, le possibilità di un controllo diretto sulla disoccupazione sono pressoché nulle, dato che il problema può essere affrontato solo grazie alle politiche del lavoro a livello nazionale e internazionale.
Le politiche pubbliche non possono quindi basarsi soltanto sulla dimensione dell’agency. La priorità della categoria del well-being rispetto a quella dell’agency è forte in ambiti quali la lotta contro la povertà o le disuguaglianze. In pratica «la società potrebbe accettare una certa responsabilità per il benessere di una persona, soprattutto quando il livello di tale benessere rischia di essere particolarmente basso» (Sen, 1992, tr. it., p. 70). È questo il caso dei contesti dove è elevato il tasso di disoccupazione.
Questa concezione della valutazione depone a favore delle politiche attive in grado di prendere in considerazione non solo le capacità individuali, ma anche quelle istituzionali. La duplice prospettiva delle capacità permette al valutatore di pesare la responsabilità individuale (cfr. Nussbaum, 2000). Ciò significa che se la persona presenta un deficit di attitudini e competenze non può essere chiamata in toto a rispondere del proprio comportamento, semmai più incisivo dovrebbe essere l’intervento pubblico (cfr. Bonvin e Farvaque, 2003, tr. it., p. 52).
La questione riguarda quindi il peso da attribuire alle responsabilità collettive e a quelle individuali e il risultato è diverso a seconda della base informativa prescelta. La vaghezza della proposta seniana è intenzionale. Infatti la traduzione operativa delle informazioni è lasciata alle scelte di politica sociale. Questa indeterminatezza è un punto di forza della concettualizzazione di Sen. Voler definire i concetti aprioristicamente e in modo puntuale rischierebbe di slegare la base informativa dalle esigenze contestuali e personali. Ne risulterebbe quindi uno strumento imposto agli attori locali, che si vedrebbero defraudati della loro discrezionalità.
L’approccio basato sulle capacità richiede quindi un equilibrio fragile e complesso tra gli obiettivi politici definiti a livello collettivo e la necessità di tener conto delle circostanze individuali e locali.
Una base informativa unicamente orientata al mercato, vale a dire al controllo dei tassi di collocamento e di disoccupazione, genera output legati alla categoria dell’efficienza. E la ricerca dell’efficienza economica a tutti i costi nelle politiche diwelfare-to-work dedicate a persone con problematiche multiple è in linea con una cultura di autocolpevolizzazione dei beneficiari e anzi potrebbe attivamente produrla (cfr. Dean, 2003). Al contrario, un approccio che tenga conto delle esigenze di persone particolarmente vulnerabili deve concedere loro il tempo per raggiungere lo stadio di disponibilità lavorativa attraverso l’acquisizione di formazione ed esperienza. Inoltre non possono mancare i servizi che garantiscano supporti di lungo periodo, anche di carattere reddituale (cfr. Bonvin e Farvaque, 2003; tr. it., p. 60).
In ultima analisi, ciò che l’approccio delle capacità esige è l’inversione della logica della valutazione: mentre l’idea del capitale umano o l’occupabilità vede l’uomo come mezzo per aumentare la produttività economica, la teoria delle capacità lo concepisce come fine a sé stesso (cfr. Sen, 1999; tr. it., p. 41).
Sulla stessa linea delle politiche per l’occupabilità, i precetti del New Public Management (NPM), che vanno per la maggiore nelle politiche occupazionali di molti paesi, strumentalizzano le competenze umane sia delle persone in cerca di lavoro che degli operatori locali, subordinandole a obiettivi quantitativi stabiliti a livello centrale (cfr. Bonvin e Farvaque, 2003, tr. it., p. 64). La valutazione delle misure di policy può così facilmente condurre a delle distorsioni interpretative perché:
· non tiene conto dell’eterogeneità dei contesti:
· non è attenta all’analisi del tempo «oggettivo» (durata del periodo di esclusione) e «soggettivo», riconducibile quest’ultimo alle biografie e alle esperienze personali;
· non guarda al superamento della dualità tra sistemi di sicurezza sociale e di assistenza residuale;
· non è riflessiva, ovvero non genera processi di autovalutazione in tutte le fasi attuative: ex ante, in itinere, ex post.
Conclusioni
L’Active Welfare State è capace di cogliere la globalità dei cambiamenti che interessano il nostro sistema di welfare, poiché non predilige forme di integrazione in luogo di altre, non orienta verso specifiche soluzioni e non parteggia a favore di uno specifico tipo di attore, sottolineando piuttosto l’importanza di tutti i soggetti, sia pubblici che privati, nella co-costruzione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa. Tuttavia, come abbiamo visto, l’attivazione si presenta in forme diverse e ciascuna è intrisa di presupposti teorici e valoriali a volte in apparente contrasto tra loro. È quindi necessario scegliere la forma migliore di attivazione, che implichi sia le responsabilità individuali che quelle politiche ed istituzionali.
Si tratta di un’impostazione coerente con l’idea di occupabilità interattiva e con la duplice prospettiva delle capacità, ed è inoltre un orientamento conforme almodello sociale europeo. Tale approccio consente infatti anche ai soggetti più deboli, privi delle risorse di base indispensabili per realizzare l’inclusione attraverso la partecipazione, di fruire di percorsi altrimenti al di fuori delle loro possibilità.
Ciononostante, la sua concreta applicazione appare oggi alquanto problematica: le iniziative comunitarie si fondano più sulla persuasione che sulla definizione di norme vincolanti e specifiche, mancando le quali si osserva, all’interno di molti contesti, compreso quello italiano, il prevalere di politiche di tipo paternalistico oppure di ispirazione neo-liberista.
L’implementazione del modello sociale europeo è dunque caratterizzata da un evidente paradosso: da un lato esso si presenta tutto improntato all’idea di cittadino quale soggetto attivo, dall’altro si definisce, in termini puramente tecnocratici, come un campo di pratiche possibili, rispetto alle quali la politica si limita a gestire esclusivamente l’adattamento dei soggetti a situazioni considerate immutabili e indiscutibili (cfr. Crespo Suárez, Amparo Serrano, 2005, p. 26).
In tale scenario, l’Active Welfare State si configura come strumento di chiarificazione concettuale della strategia europea per l’inclusione lavorativa e il fronteggiamento della vulnerabilità sociale. Quanto esso possa trovare concreta applicazione dipende in ultima istanza dalla forza persuasiva delle istituzioni comunitarie e dalla solidità delle argomentazioni che i suoi sostenitori utilizzeranno per convincere i policy makers locali.
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[1] É oramai da tempo che la lotta all’esclusione è concepita come lotta alla disoccupazione (acquisizione di un reddito da lavoro). Secondo alcuni, ciò potrebbe contribuire alla riduzione di spesa per la protezione sociale, limitando le misure di assistenza solo a coloro veramente bisognosi di un sostegno economico da parte dello Stato.
[2] Le capacità combinate sono le capacità interne, cioè gli stadi di sviluppo della persona, combinate, per l’appunto, con le condizioni esterne adatte ad esercitare quelle funzioni.
[3] La governance è un processo organizzativo cui partecipano attori indipendenti coinvolti in complesse relazioni di reciproca interdipendenza. La governance si basa sul dialogo continuo e la compartecipazione delle risorse, al fine di sviluppare progetti congiunti mutuamente vantaggiosi, e gestire le contraddizioni ed i dilemmi inevitabilmente implicati in queste situazioni.
[4] La persona è chiamata a «governare le dipendenze», poiché l’indipendenza e l’autonomia hanno un valore perlopiù simbolico. Lo scopo della politica sociale è, infatti, non il conseguimento dell’indipendenza, ma il mettere in condizione i cittadini di conquistare rapporti di interdipendenza significativa.