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Servizio Sociale e Differenze di genere

INTERVISTA A LAURA CORRADI
a cura di Alessandro Sicora

Il tema delle differenze di genere è entrato da alcuni decenni nel servizio sociale – inteso sia come professione che come disciplina scientifica. In Italia, tuttavia, le pubblicazioni su tale argomento ancora oggi sono ben poche, benché la voce ‘genere’, compilata da Pierangela Benvenuti, sia stata inserita già nella prima edizione del Dizionario di servizio sociale curato da Maria Dal Pra Ponticelli (2005). Le riflessioni sulle differenze di genere spaziano su una pluralità di ambiti scientifici e operativi, si alimentano di una pluralità di considerazioni (a partire dalla constatazione che le professioni di aiuto ancora oggi sono ampiamente “femminili”) e si arricchiscono di nuove parole chiave, quali, tra le molte, orientamento sessuale, violenza di genere, femminicidio, comunità lgbtti/queer.
Su questi temi abbiamo incontrato e intervistato la professoressa Laura Corradi nell’ambito di una serie di attività seminariali propedeutiche al tirocinio degli studenti del corso di laurea in Servizio Sociale dell’Università della Calabria. Sociologa e ricercatrice presso tale ateneo dove insegna Studi di genere e metodo intersezionale nell’ambito del corso di laurea magistrale in Scienze delle Politiche e dei Servizi Sociali, Laura Corradi utilizza principalmente metodologie qualitative e frequenta contesti di ricerca-azione e liberation research ed è autrice e co-autrice di numerose pubblicazioni, avendo anche studiato il rapporto fra salute e ambiente in diverse realtà marginali, campi profughi e contesti indigeni, nonché il corpo come luogo di conoscenza e di resistenza.

SICORA: Per iniziare, quali sono le discipline scientifiche che si occupano di genere?
CORRADI: Gli studi di genere sono interdisciplinari – e molte discipline si occupano di genere. Abbiamo le scienze sociali, l’antropologia, la psicologia, la sociologia, la politologia. Abbiamo anche la geografia di genere – per esempio, in Iran nei dipartimenti di studi di genere, che sono più di trecento, c’è una forte enfasi sulla geografia di genere, anche se l’uso militare di tali studi, a fini di reclutamento rende questo successo meno nobile […]. Da tempo abbiamo anche nel nostro paese la medicina di genere, gastroenterologia di genere, cardiologia di genere, oncologia di genere, psichiatria di genere. Personalmente ho fatto parte della prima commissione interministeriale sulla salute della donna quando era Ministra la sociologa Laura Balbo – mentre alla Sanità c’era Umberto Veronesi. Eravamo un gruppo di lavoro che produceva studi e scriveva linee guida per i medici e manualistica per le donne. Non eravamo retribuite ma abbiamo dato un contributo positivo, in Italia, su come si costruisce “una salute a misura di donna” – questo fu proprio il titolo della nostra prima pubblicazione […] Quando eravamo ‘Associazione Salute Donna’ il nostro obiettivo era quello di ‘genderizzare’ le discipline, le scienze dure e quelle sociali, poi siamo diventate ‘Istituto Salute Donna’ e da diversi anni siamo parte riconosciuta della International Society for Gender Medicine (Igm). Abbiamo fatto anche scoperte interessanti sul piano scientifico, proprio lavorando insieme tra psicologhe, sociologhe, mediche di diverse specialità, psichiatre. Abbiamo capito che ci sono delle differenze fisiologiche tra uomo e donna che vanno analizzate senza biologizzare il corpo della donna. Per esempio, le donne hanno le coronarie che sono fino ad un terzo più piccole delle coronarie maschili. E’ chiaro che se la medicina non tiene conto delle differenze di genere, e se sussistono pregiudizi per cui si pensa che i problemi cardiaci siano appannaggio degli uomini, i cardiologi imparano ad operare solo su coronarie ‘grosse’, maschili – e nel momento in cui hanno delle donne sotto i ferri, che devono operarsi alle coronarie è chiaro che possono fallire. Quindi “genderizzare” i training e in generale le discipline è stato uno degli obiettivi del femminismo, dalle scienze mediche all’ingegneria, dalle scienze sociali alle scienze della terra. Questa attenzione la dobbiamo al femminismo, che ha cambiato moltissimo la vita delle persone e la costruzione sociale del sapere. Il femminismo non è stato ‘solo’ più consapevolezza, più libertà alle donne. Certo, questo è stato importante: ai miei tempi le ragazze dovevano tornare a casa entro le sei di pomeriggio, altrimenti non erano considerate serie. […] Il femminismo ha avuto anche il merito di dare alle giovani la possibilità di studiare, lavorare, scegliere davvero con chi sposarsi, quando e quanti figli avere. Un grande movimento che ha ribaltato completamente i canoni conoscitivi della società: una rivoluzione epistemica che ha investito i saperi – da quelli legati al corpo fino a quelli più astratti.

SICORA: Perché, secondo te, la dimensione di genere è importante nel servizio sociale, come disciplina e come professione?
CORRADI: E’ molto importante lo studio del genere nel servizio sociale perché investe praticamente ogni aspetto di tale attività professionale. Innanzitutto sul piano dell’auto-riflessione: l’assistente sociale ha un genere, questo genere determina la sua conoscenza in quanto conoscenza situata. Un uomo conosce determinate cose in un determinato modo, una donna conosce le stesse cose in un altro modo, perché siamo esseri sessuati e fin dalla più tenera infanzia siamo costruiti nella differenza di genere. Inoltre gli uomini e le donne comunicano in maniera diversa, e l’assistente sociale lo sa. Gli uomini tendono ad utilizzare maggiormente canoni legati all’autorità, le donne invece l’empatia – ho scritto sull’epistemologia del corpo, sul corpo come materia epistemica, materia di conoscenza, e nel lavoro dell’assistente sociale il corpo è materia della comunicazione: si guarda al corpo per capire i segni del disagio. Questo è un altro portato del femminismo: la centralità del corpo nella costruzione di conoscenza, nella costruzione di intervento sociale e di azione politica dotata di senso.
Un altro livello è quello della cura: il femminismo è esso stesso una disciplina etica dell’attenzione verso l’altra persona. L’ascolto profondo dell’altra persona è un nodo fondamentale nel servizio sociale; l’attenzione alla persona è una delle anime di tutto il lavoro sociale – che deve essere in grado di sintonizzarsi con i bisogni, spesso inespressi, da decodificare attraverso il corpo. Dalla pratica dell’ascolto all’accoglimento, dalla prevenzione del suicidio agli interventi nelle situazioni pesanti, con le famiglie dove ci sono vittime di pedofilia o di violenza. Quindi, in ogni campo, con gli anziani come con i bambini, con le anziane come con le bambine, noi abbiamo bisogno di differenziare il nostro intervento sul piano del genere.

SICORA: Essere uomo o essere donna è una dicotomia oppure qualcos’altro? E quali sono le principali riflessioni che ti senti di portare e che ti vengono in mente attorno a tale binomio?
CORRADI: Personalmente sono per il superamento delle dicotomie, c’è una parola in sanscrito Advaita, che significa proprio non-dualismo, che ci invita a vedere come ogni elemento sia connesso con gli altri. E questo è alla base poi dell’approccio empatico nel lavoro sociale, così come nel lavoro educativo. Se non c’è una tensione positiva e continua, di disponibilità alla relazione, è chiaro che il progetto può fallire, quindi è molto importante superare queste dicotomie anche sul piano del genere. In ogni donna c’è una parte maschile, in ogni uomo c’è una parte femminile. L’educazione che noi riceviamo è fortemente di genere: le bambine giocano con le bambole, i bambini giocano con le macchinine. […] Certo le cose stanno cambiando, ma molto lentamente. L’educazione di genere è ideologica e lacunosa perché non permette ad una serie di talenti di svilupparsi, privilegiando ovviamente il maschile. Purtroppo in ogni dicotomia c’è una gerarchia – per cui se non la superiamo ci troveremo sempre con una gerarchia dove è il maschile l’elemento importante. Ma anche se accadesse il contrario, se improvvisamente il femminile come costrutto sociale divenisse più importante, sarebbe probabilmente altrettanto oppressivo.
Sono d’accordo con Judith Butler quando dice che il genere è una performance a cui ci viene chiesto di adeguarci fin da piccole. […] Ed è interessante che le nuove opzioni femministe – soprattutto non occidentali – siano per il superamento delle dicotomie – non per la supremazia del femminile sul maschile. E questo è necessario per il superamento delle gerarchie di genere. Nei campi ove il genere si interfaccia con il servizio sociale – ma anche nel rapporto tra paziente e medico/a, tra colleghi/e – abbiamo, una necessità di superare dicotomie e gerarchie che opprimono le donne e non rendono felici gli uomini, perché reprimono, all’interno di ogni maschio, la sua parte dolce e comunicativa. Quindi promuovere forme diverse, non dominanti, di maschilità è un elemento cruciale nel lavoro di educazione e prevenzione che fa l’assistente sociale.

SICORA: Possiamo dire che le donne costituiscono strutturalmente un gruppo di persone fragili? E se sì, perché? Pensiamo ad una donna molto famosa, Angela Merkel, cancelliera tedesca, può essere considerata una persona, una donna fragile?
CORRADI: Chi lo sa quanto Angela Merkel decide per davvero le sorti del suo paese: nonostante a noi sembri un bulldozer sicuramente ci sono poteri forti dietro di lei, come dietro ad ogni uomo di potere. Quando io penso alle donne non penso alla loro fragilità – certo una donna è più vulnerabile: può essere stuprata, può essere picchiata, fisicamente più debole di un uomo, spesso anche se non sempre. Quando io penso alle donne, penso alla loro forza – penso alla mia vicina di casa, Angelina, che ha tirato su quattro figli, è riuscita a far studiare le due femmine, una ha fatto il dottorato e adesso ha vinto una borsa in Germania. Penso a queste donne che non hanno studiato, che sono state qua a lavorare, come donne delle pulizie nella nostra università e sono riuscite a garantire un futuro diverso alle loro figlie. E penso che la provenienza di molte studentesse, come la mia, sia da famiglie umili, contadine oppure operaie – non hanno certo avuto i privilegi della casta docente o della casta medica. […] Sappiamo quanto è costata la loro possibilità, quanti sacrifici, e quanto desiderio le loro madri hanno avuto di far studiare anche la femmina e non solo il maschio. Ce lo ha raccontato Carmen Leccardi nella sua ricerca ‘Generazioni e genealogie femminili nel Mezzogiorno’: queste ragazze sono il sogno delle loro madri. Io penso alla forza delle donne sia qua che a livello globale: facendo ricerca in giro per il mondo vedo la forza delle indigene sudamericane, delle contadine indiane, anche nella crisi, con il problema dei suicidi degli agricoltori. Gli atti di autolesionismo dei lavoratori – si suicidano i maschi più delle femmine (si suicidano anche le lavoratrici ma in misura molto minore) – sono un problema di cui il servizio sociale dovrà cominciare ad occuparsi in maniera anche preventiva. Questa è un’emergenza che riguarda una specifica classe ma è anche di genere: gli uomini si suicidano perché non riescono più a soddisfare le aspettative di ruolo che pendono socialmente su di loro come ‘breadwinners’ – e va fatto un intervento preventivo mirato su di loro. Poi sulle vedove, che devono portare avanti la famiglia, i figli, in una situazione disastrosa sul piano psicosociale.

SICORA: La violenza, secondo te, è di genere?
CORRADI: Questa è una domanda importante, parlare solo di genere è limitante: non possiamo capire la violenza che c’è oggi sulle donne se non guardiamo al genere in maniera intersezionale. Cioè, intersecando il genere con la classe e con altre disuguaglianze sociali. E’ vero che la violenza colpisce tutte le donne, una volta si pensava che solo le famiglie povere avessero il marito violento, che si ubriaca, picchia la moglie, e molesta le figlie. Poi abbiamo visto che non è così, anche nelle classi alte le donne sono vittime di violenza – e questo mito classista è stato sfatato dalla ricerca di genere, in questi decenni. Prima del femminismo non avevamo ‘ricerca di genere’, ogni tanto c’era qualche studio sulle donne, spesso fatto dagli uomini, ma la ricerca di genere fatta dalle donne, con le donne – anche nella forma di ricerca-azione – è arrivata col femminismo.
Perché oggi la violenza è così forte nei confronti delle donne? Proprio in un momento storico in cui le donne sembrano avere una autonomia senza precedenti, accesso all’istruzione, al lavoro? […] Questa violenza sembra un ‘backlash’, una reazione del patriarcato in crisi, volta a rimettere le donne al loro posto. […] Arrivo ora da un convegno su donne e crisi economica. Nel momento in cui esplode aumentano tutti i livelli di violenza: sia quella intra-punitiva – autolesionismo degli adolescenti, giochi a rischio, suicidio dei capi famiglia – ma anche la violenza extra-punitiva, la violenza dei più forti sui più deboli. Dei mariti sui figli e sulle mogli ma anche delle donne sui loro figli o sulla persona anziana, sul disabile, o nei confronti del ragazzo gay. Tutte le diversità, se non vengono considerate come valore, possono diventare portatrici di disuguaglianza; e nel momento in cui aumenta la violenza sociale tutte le fasce vulnerabili sono a rischio. I senza tetto, gli immigrati, gli anziani, i bambini, le trans, i portatori di disabilità, persino gli operai: in uno scritto ho affrontato questo tema nel contesto della Germania, perché noi pensiamo che sia un paese forte, ma in realtà, la Germania è colpita, oggi, nel suo cuore produttivo da una crisi epocale. Gli autori tedeschi parlano addirittura di ‘fragilizzazione’ delle componenti socio-strutturali: laddove il lavoro era struttura portante della società, oggi vacilla pericolosamente – i più a rischio sono i lavoratori. Certo, c’è meno precariato in Germania che qui, ma il tema è quello del rischio di precariato per tutta la classe operaia e questo si sente anche nella percepita ‘fragilizzazione’ delle relazioni famigliari, delle solidarietà. I servizi sociali tedeschi si stanno attrezzando per queste emergenze, nella crisi che verrà. […] E’ chiaro che l’aumento della violenza non si limita solo alla dimensione di genere, ma include quella razziale, religiosa, di classe – pertanto questo fenomeno va studiato con una prospettiva intersezionale.

SICORA: Che cos’è il femminicidio di cui si parla oggi?
CORRADI: Si parlava da tempo di ‘ginocidio’, inizialmente nel lavoro di Daniela Danna che metteva in relazione quello che succede qua con quello che succede in altre parti del mondo. Le donne prevalentemente sono ammazzate dalle persone che amano o che hanno amato. Vengono uccise dai mariti o dagli ex mariti, gelosi o incapaci di accettare la fine della relazione. Le donne vengono uccise anche dai loro figli, padri, fratelli, nipoti – tossicodipendenti o alcolisti – per rabbia o per avidità. Il fatto che le donne vengano uccise da persone della loro famiglia non è una cosa priva di problematicità – evidentemente bisognerebbe mettere in discussione gli equilibri, i valori delle famiglie e anche i valori sociali. Se le donne vengono ancora percepite come inferiori, culturalmente considerate, 40 anni dopo il nuovo diritto di famiglia, come proprietà di un uomo, è chiaro che questo è un problema: alle donne non viene garantita quella libertà e autodeterminazione che viene concessa ai figli maschi, le donne sono meno persone. E uccidere una donna per salvare l’onore non è ancora stato ricodificato, nell’inconscio collettivo maschile, come un crimine inammissibile.
Femminicidio è un termine un po’ brutto che vuole mettere l’accento su queste problematiche e anche sul fatto che – come ho sottolineato nel mio lavoro Specchio delle sue brame – la violenza sulle donne è considerata in qualche modo sexy dall’industria cinematografica, dalle pubblicità perché sesso e violenza assieme attirano lo sguardo del compratore, dell’audience. Sesso e violenza sono emozioni forti e nel momento in cui vengono messe assieme costituiscono una pozione infallibile. Siamo esposte/i quotidianamente a pubblicità violente, ne abbiamo discusso recentemente su M@gm@, una rivista internazionale, con la presidentessa dell’UDI (Unione Donne d’Italia) Vittoria Tola impegnata a porre un argine a queste ondate di violenza.
Come mettere fine alla violenza? Semplicemente dicendo agli uomini no non devi picchiare, no non devi violentare, non devi uccidere? Nel momento in cui ci sono film, videogames, e un sacco di immagini violente erotizzate, che girano tranquillamente nella nostra società, senza alcun tipo di decostruzione – è chiaro che diventa difficile fare prevenzione della violenza. Non possiamo stupirci degli attacchi pedofili sulle bambine (la pedofilia ricordiamo, non è omosessuale come fenomeno, è quasi esclusivamente etero) non possiamo combattere la pedofilia se lasciamo che ci siano immagini pedofile e pubblicità che istigano alla pedofilia. Pensiamo a modelle, nell’industria della moda, che sfilano con la lingerie a dodici anni a Milano. […] E non è nemmeno chiedendo la censura che si risolvono questi problemi perché con la censura otteniamo solamente che le immagini violente e pedofile vadano nel mercato nero. Ci vuole un cambiamento culturale, non basta fare la diagnosi precoce della pedofilia per capire cosa succede dentro la famiglia. Occorrerebbe una rivoluzione culturale per i diritti delle bambine e delle donne: una bambina è inviolabile perché una donna è inviolabile e perché questa bambina sarà una donna, e se è stata vittima di pedofilia questa cosa se la porterà dietro come una cicatrice per tutta la vita. Le assistenti sociali, gli assistenti sociali hanno un ruolo importantissimo nella prevenzione primaria e nell’educazione anche a questo livello.

SICORA: In Italia solo il 7% degli/delle assistenti sociali è costituito da uomini. Quali sono le implicazioni, le differenze tra l’essere assistente sociale uomo e l’essere assistente sociale donna?
CORRADI: Cambia tantissimo. Ci dovrebbero essere, lo dico sempre in aula, più maschi nel servizio sociale. Prima di tutto perché è più facile, per un uomo, parlare di certi problemi con un altro uomo – così come abbiamo scoperto che era più facile per le donne parlare dei loro problemi con altre donne (si pensi, ad esempio, alle sportelliste nei centri antiviolenza). Ci sono una serie di questioni sul piano della prevenzione, penso per esempio a quanto potrebbe essere utile la presenza di assistenti sociali nella prevenzione di una serie di tumori maschili. Per le donne è stato facile fare training ad altre donne per la palpazione del seno e per il pap-test (l’Italia è uno di quei paesi dove le mamme insegnano alle figlie a farsi l’autopalpazione, dove le assistenti sociali inviano la donna Rom a farsi fare il primo esame del seno e il primo pap-test, anche nel Sud). Sul piano della prevenzione maschile invece non c’è quasi niente: l’uomo italiano, neanche dopo i 40 anni, va a farsi fare un’ispezione digito-rettale. I papà italiani non spiegano ai figli come farsi la palpazione dei testicoli, eppure abbiamo un aumento di cancro ai testicoli nei bambini (perché si manifesta purtroppo, nella quasi totalità in età dello sviluppo maschile). Abbiamo un tale pudore nel parlare di queste cose, per la nostra storia religiosa, per questioni culturali […] che questo può essere affrontato dai servizi medici e sociali con una strategia di genere ben mirata. Solo gli uomini possono andare a convincere altri uomini che non perdono la loro maschilità se si fanno fare un’ispezione digito-rettale – e che questo può salvare loro la vita. Oppure possono insegnare ai loro figli come fare questo semplice controllo una volta al mese, come facciamo noi donne per quello che riguarda la salute del nostro seno.
Come ho scritto in Salute e Corpo nelle scienze del servizio sociale, è importantissimo genderizzare la prevenzione – ed ampliare questo campo di intervento delle/degli assistenti sociali. La collega Campanini l’ha fatto nella prevenzione dei disordini alimentari, bulimia e anoressia nelle scuole, utilizzando le/gli assistenti sociali per il lavoro educativo e preventivo. Questo è uno dei compiti, purtroppo, meno sviluppati nel nostro paese: noi non abbiamo ancora l’Health Social Worker, l’assistente sociale della salute. Eppure è una specializzazione che dovrebbe esserci – con un focus sul genere, perché tutto ciò che riguarda il corpo è meglio comunicato in maniera gender-sensitive.

SICORA: Pensiamo a due concetti vicini ma diversi: identità e orientamento sessuale. Cosa sono e in che cosa differiscono? Quali sono le implicazioni principali nel lavoro dell’assistente sociale?
CORRADI: Questa è un’altra area dove la gente fa molta confusione ed è una delle prime cose che vado a dipanare nei miei corsi. Spesso le studentesse e gli studenti pensano che il transessuale e il gay siano più o meno la stessa cosa, o che fra il travestito e il pedofilo ci sia ben poca differenza. Quindi, bisogna capire le differenze di genere e tutte le problematiche che attengono a quelle sessuali. Ci sono molti giovani, oggi, che non si riconoscono né in un genere, né nell’altro. Ho fatto un seminario all’università di Chieti dove si è tenuta la prima “settimana Queer” italiana sponsorizzata da una università. Queer è un termine ombrello che racchiude gay, lesbiche, bisex, trans, intersex, anche persone etero che non si riconoscono nei codici performativi di genere. Questa attenzione dentro l’accademia è importante perché le persone transgender, come le persone transex, come le persone intersessuate, come le persone gay, lesbiche, bisex, sono portatrici di problematiche particolari. Non perché il loro orientamento preveda tali problematiche particolari, ma perché le nostre società non sono attrezzate ad accettare queste persone. Quindi l’omofobia (nelle sue varie forme, lesbofobia, bifobia, transfobia) è un fenomeno che non riguarda solo il motivo che porta singoli o gruppi di persone a picchiare o uccidere i diversi, a stigmatizzare, marginalizzare, mobbizzare altre persone. E’ proprio una relazione sbagliata: io definisco l’omofobia come una malattia sociale, che porta infelicità nelle famiglie, nelle scuole, nei posti di lavoro e nelle situazioni dove queste persone vivono. Porta un grave danno alle persone ‘diverse’, ma anche alle istituzioni, e alla nostra immagine nel mondo.
Quali sono le differenze nella galassia Queer? Gli orientamenti sessuali sono molteplici: in maniera schematica, noi abbiamo orientamenti eterosessuali, abbiamo orientamenti omosessuali e abbiamo orientamenti bisessuali. Nell’orientamento eterosessuale la persona si innamora ed è attratta prevalentemente da una persona dell’altro sesso; negli orientamenti omosessuali la persona si innamora ed è attratta prevalentemente da una persona dello stesso sesso; negli orientamenti bisessuali la persona si innamora indipendentemente dal genere dell’altra persona. Quindi abbiamo tre tipologie, queste tre tipologie non sono da considerare ‘in scatole chiuse’ perché le persone cambiano, ci sono persone che magari sono eterosessuali fino a 40 anni e poi si innamorano di una persona del loro stesso sesso; oppure che sono omosessuali nella giovinezza e poi si sposano e hanno una vita completamente eterosessuale. Ci sono persone che continuano per tutta la vita a innamorarsi di persone di un sesso o dell’altro sesso, si innamorano dell’anima delle persone e magari non hanno nemmeno rapporti sessuali – ma rapporti affettivi molto importanti. Ecco, l’omo-affettività viene tenuta poco in conto quando si parla degli omosessuali, come se la loro principale attività fosse la sessualità, in realtà si tratta prevalentemente di omo-affettività, sia per le persone giovani che per le persone non più giovani.
Gli orientamenti sessuali non vanno confusi con gli orientamenti di genere: una persona può nascere donna e sentirsi donna, può nascere uomo e sentirsi uomo, può nascere uomo e sentirsi donna o può nascere donna e sentirsi uomo. Ci sono situazioni transgender, persone che attraversano i due generi. Hanno un sesso attribuito e un sesso identitario; spesso queste persone soffrono molto perché fin da bambine magari vorrebbero stare nelle classi dei maschietti o fin da maschietti vorrebbero stare nella classe delle bambine. Vestiti da maschio, vorrebbero vestirsi da femmine e viceversa – questo sentirsi sempre fuori posto è una cosa abbastanza dolorosa. Alcuni scelgono di operarsi, in età adulta o in età adolescenziale, alcuni scelgono di non operarsi. Abbiamo transgender pre-op – prima dell’operazione, transgender post-op – post operazione e transgender no-op – che non vogliono operarsi. Recentemente alcuni ricorrono al termine intersessuali: appartengono a entrambi i generi, ad entrambe i sessi. Talvolta, hanno caratteristiche sessuali e morfologiche di un sesso, o dell’altro o di entrambi, tipo il pene e le ovaie; oppure hanno le caratteristiche ‘fisiche’ solo di un sesso ma identitariamente sentono di appartenere anche all’altro. Quindi, abbiamo una varietà notevole, io ho fatto solo alcuni esempi ma mi sono resa conto dalla quantità di studenti intersessuati, transgender e Glbt – gay, lesbiche, bisex e trans – della enorme polifonia che il corpo umano, l’appartenenza di genere e l’orientamento sessuale esprimono in natura. Ci sono dei transgender che si operano, famoso fu il caso di Sandy Stone, una studiosa della California che era un uomo, si operò per diventare donna – ma era lesbica: non diventò donna per sposarsi con un uomo come la maggior parte dei trans Male to Female, da maschio a femmina. Divenne donna per stare con altre donne, da lesbica non da uomo.
Una diversità così grande di caratteristiche umane, come educatori e social workers dobbiamo essere in grado di accoglierla, in maniera non giudicante, e di porci all’ascolto della persona senza dare per scontato il genere: se chi percepiamo come donna sia davvero una donna, se chi vediamo come uomo sia davvero un uomo. Dobbiamo acquisire una certa flessibilità mentale e attivare il cuore, la capacità di accettare le persone in tutta la loro diversità, anche se magari quelle diversità ci inquietano, o in qualche misura ci mettono a disagio. Dobbiamo essere capaci di elaborare questo disagio nelle apposite sedi.

SICORA: Faccio ora una domanda conclusiva che riassume le cose che hai detto in questa intervista. Quali sono i consigli che daresti agli studenti che stanno leggendo questa intervista e che saranno gli assistenti sociali del futuro?
CORRADI: Il consiglio che posso dare agli studenti e alle studentesse, quello più importante, riguarda proprio l’adozione del metodo intersezionale – il che significa guardare alla persona che abbiamo di fronte in maniera multidimensionale: ha sempre un genere, talvolta ne ha anche due; ha sempre un orientamento sessuale, talvolta non è il nostro; la persona che abbiamo difronte ha sempre una classe di provenienza e una classe in cui si trova oggi, talvolta queste due classi non combaciano; la persona che abbiamo difronte ha sempre un background etnico, che sia del sud Italia o del nord Italia, che sia albanese o nigeriana, ha sempre una formazione culturale. Ha sempre una religione, che sia greco-ortodossa, cattolica, musulmana, o induista o buddista, quindi non diamo mai per scontata la religione. Come non diamo mai per scontato il linguaggio: può essere una persona che parla arbereshe (lingua delle comunità albanesi in Italia), può essere che abbia come lingua madre il tedesco anche se si esprime perfettamente in italiano. Non diamo per scontate le differenze e neanche le abilità, davanti a noi abbiamo una persona che magari ha problemi di udito, quindi l’attenzione alla comunicazione può farci capire se la persona ha dei limiti più o meno riconosciuti. Sarebbe bene sfatare anche i pregiudizi, ne discutevo con femministe disabili lo scorso anno. Tutti noi abbiamo dei limiti: chi nella vista, chi nell’udito, chi nelle capacità motorie, chi in quelle respiratorie. […] Riuscire ad accettare i limiti degli altri significa riuscire ad accettare meglio anche i nostri limiti, a metterci a nudo – ed essere se stessi nella relazione di servizio sociale può aiutarci a erogare un servizio migliore, più ricco, più sfaccettato, più democratico, più inclusivo e più trasformativo rispetto alla realtà. A studentesse e studenti direi: qualsiasi sia il settore in cui voi andrete a lavorare – con le vittime della tratta o con gli anziani/e in un ricovero, per la prevenzione dei disordini alimentari con le giovanissime nelle scuole, o con le persone migranti nelle baraccopoli – tenete presente che la persona di fronte è portatrice di classe, etnia, età, genere, orientamento sessuale, religione, è una persona di cui tenere conto in tutte le sue diversità simultaneamente, e senza supponenze. Ascoltando ciò che l’altro, o l’atra, ha da dirci senza pregiudizi, preconcetti o critiche. Il metodo intersezionale, come dice Nina Lykke, è il più grande dono che il femminismo ha fatto alle scienze sociali, e ci può aiutare a intersecare queste differenze, a capire meglio la realtà che vogliamo trasformare.

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